Intervista a Guido Sgardoli


Sono nato nel 1965 a San Donà di Piave, in provincia di Venezia, e vivo a Treviso. Le storie che scrivo sono per bambini piccoli, per bambini grandi e anche per adulti. Per chi come me ama le storie, insomma, senza distinzioni anagrafiche.

Credo che le storie, come i viaggi, abbiano il potere di condurre in luoghi lontani e affascinanti, di esplorare e di esplorarsi, di porre delle domande pur non sapendo a volte dare risposte, di far crescere, di confrontarsi e infine di condividere.

Associo alla scrittura l’altra mia grande passione: gli animali. Divido a metà il mio tempo, tra le pagine dei libri e lo studio nel quale lavoro come medico veterinario, e ancora non so dire se sono un veterinario che ama scrivere o uno scrittore che aiuta gli animali. Probabilmente entrambe le cose e mi ritengo fortunato per questo.

Alcuni dei miei libri sono stati tradotti all’estero, alcuni hanno ricevuto riconoscimenti importanti quali il Premio Bancarellino e il Premio Andersen.
Ho scritto anche qualcosa per il cinema e tenuto rubriche su giornali.


Come mai ha deciso di scrivere per i bambini e i ragazzi?

Credo che sia cambiato qualcosa con la nascita di mio figlio, nel ’96. Fino ad allora avevo scritto racconti, reportage di viaggio ed altro, ma sempre pensando che sarebbe stato un pubblico adulto a leggere le mie cose. Poi, nato Filippo, ho pensato che attraverso le storie avrei potuto parlargli, avrei potuto spiegare a quel bambino i pensieri di suo padre, le idee nelle quali crede. Così ho preso quelle idee e le ho rivestite di storie che fossero comprensibili ai suoi occhi di bambino. Poi mio figlio è cresciuto e le mie storie con lui.

Ha mai sognato un personaggio che aveva inventato per una sua storia?

E’ una strana domanda, ma no, non ho mai sognato alcuno dei miei personaggi. Però molte notti mi sono addormentato con qualcuno di loro in testa, perché magari la storia era ad un punto morto oppure perché ero talmente preso da quel carattere che non riuscivo più a staccarmene.

Ci racconta quando scrive, il suo tavolo da lavoro e se preferisce la carta o il pc?

Scrivo rigorosamente al computer, sebbene, avendo cominciato a scrivere da ragazzino, abbia compiuto tutti i passi necessari: carta e penna, macchina da scrivere e pc. La macchina da scrivere l’avevo comprata usata con i soldi guadagnati vendendo la carta raccolta porta a porta.

L'importante per scrivere è che l’ambiente nel quale mi trovo sia tranquillo; meglio se a casa, meglio ancora in giardino, sotto il portico o i rami di un albero, meglio ancora se c’è vento e se il vento fa frusciare le foglie degli alberi. Non ho un tavolo preferito, poiché, usando il portatile, non fa differenza.

Ci sono delle consuetudini, situazioni o atmosfere che cerca di ritrovare o ricreare perché aiutano il suo processo creativo?

No. Per scrivere, come detto, ho bisogno di almeno un paio d’ore di tranquillità. Per pensare alla storia, ai meccanismi, allo sviluppo dei personaggi, all’intreccio, invece, non ho particolari esigenze: per necessità mi sono abituato a farlo in qualsiasi momento della giornata. Direi che vivo con le idee delle mie storie 24 ore al giorno.

Quando nasce un nuovo racconto?

Me lo sono chiesto spesso. Quando un’idea, un articolo di giornale, una frase colta al volo, un’esperienza, un ricordo, quando una qualsiasi di queste e di altre cose è una buona idea per un libro? Non credo di saperlo. Per quanto mi riguarda è una specie di istinto a guidarmi, qualcosa che mi suggerisce cosa ha davvero un potenziale e cosa no. Altrimenti ogni input, interno od esterno, potrebbe diventare materiale per una storia e saremmo costretti a scrivere cento storie l’anno. Invece solo alcuni di questi spunti si trasformano in una buona storia, una storia che valga la pena di essere scritta e dunque letta.

Alcuni affermano che la letteratura per i ragazzi è di serie B.
Cosa rispondere a chi la pensa così?

Non è la letteratura o gli scrittori ad essere di serie B, ma una certa pseudocultura che si ostina a credere che gli adulti, e quindi il mondo degli adulti, sia più importante e meriti più attenzione di quello dei ragazzi, che essere piccoli significhi avere piccoli pensieri e piccole emozioni. E poi basterebbe conoscere le opere di Roald Dahl, di David Grossman, di David Almond, di Neil Gaiman, di Astrid Lindgren, di Daniel Pennac, di Henning Mankel, di Amos Oz, di Philip Pullman (bastano?) per convincersi del contrario.

C’è qualcosa che vorrebbe lasciar detto in questa intervista? Una riflessione, un pensiero, un messaggio, ciò che preferisce, ci dica.

Dal momento che gli adulti sono ormai andati, nel senso che sono irrecuperabili, vale la pena di investire sui bambini e sui ragazzi. E questo investimento lo si deve fare con le idee e con gli esempi, con i libri e con tutta la cultura che possiamo. Più ricco sarà lo zaino che si porteranno dietro, più strumenti avranno per affrontare e per risolvere le sfide che si presenteranno loro, e per rimediare ai danni, tanti, che noi abbiamo combinato.
Altro che serie B!


Se qualcuno, per qualsiasi motivo, volesse utilizzare anche solo in parte l’intervista presente in questo post, dovrà chiedere esplicita autorizzazione all’autore che ha fornito le risposte.





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