Intervista ad Anselmo Roveda




Genova, 1972, giornalista e scrittore.

Per oltre dieci anni ha lavorato come educatore, coordinatore educativo
e amministratore nei servizi sociali di prevenzione del disagio minorile.

Oltre ad occuparsi di letteratura, giornalismo (è coordinatore redazionale del mensile Andersen e collabora con altri periodici) e comunicazione, si interessa di tradizioni popolari, immaginario, lingue minoritarie.
Ha scritto poesie e lavorato per la radio. Ha pubblicato numerosi libri per gli adulti e per i ragazzi.

Come mai ha deciso di scrivere anche per i ragazzi?

Ci sono storie che si ha voglia di raccontare, che arrivano, che emergono, che ti vengono suggerite da incontri e paesaggi. Ognuna di queste storie sceglie, quasi autonomamente, la forma e la misura narrativa. E quindi anche i destinatari privilegiati, pur restando disponibili a qualsiasi lettore. Certe storie decidono che la parola non basta e si intrecciano con i segni e così nasce un albo illustrato; altre prendono strade più lunghe e tutte di parola per diventare racconti e romanzi; altre ancora scelgono di essere lette ad alta voce così vengono fuori riscritture di fiabe o radioracconti. Non credo nel “ora scrivo per bambini”: il rischio è di bambineggiare presumendo un’idea d’infanzia edulcorata che per fortuna non esiste Credo però nell’intenzionalità; nel consapevole esercizio di misurare, di proporre storie che siano soddisfacenti per l’esperienza in età evolutiva, storie capaci di assumere i bambini non a pretesto ma a protagonisti, con tutta la loro specificità. Infine, attribuendo alle storie un potere di cambiamento, mi piace scrivere per i più giovani, ed avere modo di incontrarli, perché lo ritengo il mio miglior investimento sul futuro. Non soltanto il loro, ma anche complessivo e quindi pure mio. Spesso scherzo dicendo che vorrei vivere una vecchiaia serena, libera dal fare; mi piacerebbe giocare a bocce in una certa società di mutuo soccorso del mio quartiere, bevendo spuma e guardando il mare; beh, per farlo mi serve un mondo sereno, migliore di questo, e quindi confido, oltre che in un’assunzione di responsabilità di noi adulti, nei giovani. Soprattutto sui giovani. Ecco perché mi piace scriver per loro: per poter giocare a bocce tra trenta anni.

Cosa le piace e cosa non le piace della scrittura?

Amo la pressoché infinita possibilità combinatoria offerta da un elemento finito, ma in continua evoluzione, come la lingua. Dare voce, più che volto, ai personaggi è un divertimento. Nessuno di noi parla nello stesso modo, egualmente i personaggi esigono ciascuno una propria voce, voce che racchiude scelte e storie. E’ dalla lingua parlata da un personaggio che il lettore parte per scoprirne temperamento e inclinazioni. Mi piace sperimentare, sorprendermi, scoprire parole che non uso abitualmente, ma pertinenti per quella determinata narrazione, giuste per la voce non mia ma del personaggio che le adopera. Non amo quindi la sciatteria linguistica. La scrittura, certo, è anche faticosa e la cosa che amo meno dello scrivere è quando le idee sono ancora fresche - ed esigerebbero quindi mano e occhi freschi – e lo scrittore un po’ meno. I caffè servono a stare svegli, forse, ma certamente non a scrivere buone storie.

Ci racconta il luogo dove scrive? Ad esempio il suo tavolo di lavoro.

Nel tempo ho cambiato case, spazi, strumenti di scrittura e scrivanie, ma ho sempre avuto bisogno che il piano di lavoro fosse vicino a una finestra con orizzonte aperto, meglio se marino, o nella bella stagione direttamente all’aperto. Lo studio nel quale lavoro oggi ha una finestra che affaccia sul porto di Genova, una fila di gru metalliche – le mie ‘giraffe di mare’ – segna il confine con il blu. Sul tavolo del computer: un ordine senza rigore che gli altri, pure gi affetti più cari, sono soliti interpretare come un “casino indescrivibile”. Lì, sul piano di lavoro, e su tavoli e scaffali: appunti a mano, dizionari (di parole, simboli, santi, bestie…), cartine geografiche, vecchi giochi, libri curiosi antichi e nuovi, minuteria di ferramenta, scatole di sigari.

Ci sono delle consuetudini che aiutano il suo processo creativo?

Il processo creativo vero e proprio no. Nel senso che le idee di storie, e le loro svolte, nascono in momenti diversi e disparati e lì – in macchina, sull’ascensore, appisolandosi… - ci si può limitare, di solito, a prendere appunti. Per la scrittura, soprattutto in fase di ultime revisioni, ho bisogno di sgomberare il piano di lavoro e poi ririempirlo, affastellando materiali utili alla narrazione. Naturalmente nell’ordine senza rigore di cui dicevo.

Qual è il racconto che spera un giorno di riuscire a scrivere?

Forse quello che non riesco ancora a immaginare. Sicuramente quello che penso debba essere letteratura: una storia semplice, di fantasia eppure vera, che contenga un intreccio di destini minimi e particolari capaci però di parlare universalmente.

A cosa sta lavorando in questo periodo?

Tra le cose per ragazzi ho appunti, più o meno lavorati, e primissime stesure per un paio di albi illustrati (quello a cui tengo di più parla di mare) e diversi racconti e romanzi: una storia sull’arbitrarietà dei confini e relativa mutevolezza delle identità nella storia di un nonno e un nipote in val Roya di fronte ai Mondiali di calcio, un’amicizia tra un asino e un alpino durante la seconda guerra mondiale, un’avventura nella Roma antica. E poi una storia ambientata a Zacinto da scrivere con un’autrice greca e un progetto teatrale, ma mi piacerebbe anche scrivere un ‘avvenne dopo’ di Barbablu, per ora c’è solo l’incipit.

C’è qualcosa che vorrebbe lasciar detto in questa intervista?
Una riflessione, un pensiero, un consiglio da condividere, ci dica.

Consiglio, ad ogni età, di lasciarsi attraversare e cambiare dalle passioni e dalle storie: i libri sono ottimi compagni per le stagioni di quiete e per quelle di rivoluzione. E i ragazzi vivono una rivoluzione che è quella del crescere, avere storie con cui accompagnarsi non è male.


Il sito dell'autore http://www.anselmoroveda.com/
 
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